00 20/03/2010 21:52
Cara Owlly,

"AMBIZIOSI, arrivisti, scalatori, disposti a sacrifici fisici e morali pur di ottenere una posizione di potere."

Purtroppo sì, posso dire che mi rispecchia abbastanza. E inoltre, nell'ambiente che frequento, posso dire che il 70% delle persone che lo compongono mi paiono dopaminergiche (e infatti mi stanno tutte sulle palle). Una persona dopaminergica la riconosco a fiuto, mi basta essergli vicina per capirlo. Un po' come se si creasse fra me e lei una sorta di magneticità. E' strano da spiegare, ma è così. Poi approffondirò altrove questa questione.

Per quanto mi riguarda, posso dire di essere abbastanza ambizioso. Tuttavia, come hai detto tu, noi siamo dei cavalli che corrono da soli, indipendentemente dall'obiettivo.
In ciò che sto facendo l'obiettivo è fondamentale, senza di esso non riuscirei a sopportare tutti questi sacrifici. Devo a lungo reprimere o spostare i tic; trattenere le compulsioni; evitare (ma qui fallisco sempre) le ecoprassie; e, soprattutto, devo essere ipocrita ipocrita ipocrita e sorridere, e a causa del mio disturbo oppositivo è abbastanza difficile.

Ho conseguito risultati importanti nella mia vita, e l'ho fatto sempre sotto la prospettiva della competitività; del misurarsi, confrontarsi, provando profondo odio e disprezzo per gli avversari (sia che fossero compagni di classe, colleghi o amici). Ma i sentimenti che nutrivo verso queste persone sono sempre stati legati alla loro fisionomia, ai loro tratti del viso, piuttosto che al fatto che fossimo in competizione.

La competitività è stata ed è una grande malattia della mia vita, che molto spesso mi ha privato di grandi affetti e amicizie. Tuttavia, negli anni, ho imparato (e ancora devo migliorare) a ritagliarmi delle sedi, dei luoghi in cui non essere competitivo.
Ho fatto enormi progressi. Ad esempio, in palestra, al contrario di come avveniva tanti anni fa, non me ne frega niente di non essere il migliore e dichiaro anche ironicamente i miei limiti. Ho bisogno di fare ciò: in modo tale creo un'oasi di pace, un luogo in cui non devo rendere conto a nessuno. Lo stesso faccio con gli amici, che naturalmente non appartengono al mondo del lavoro.
Ho tanti universi paralleli, e li visito tutti assumendo sempre un carattere diverso. Il dramma è quando magari qualche amico fa incursione in un altro ambito dove sono competitivo! A quel punto crolla l'equilibrio.

Quando ho messo da parte la competitività mi sono successe delle cose bellissime; ho vissuto delle esperienze e delle relazioni umane mai vissute prima. Ho fatto cose che non credevo che si potessero fare veramente. E' stato tutto straordinario. E tutto ciò mi mette in crisi.

Adesso, o meglio alcuni mesi fa, ho vissuto una profonda crisi esistenziale, una di quelle crisi che ti spingono a diventare un clochard. Per alcuni giorni ho fatto cose e vissuto esperienze che mai avrei pensato di fare. E' successo un po' per caso e un po' perchè lo volevo. Ovviamente, come è mio solito, ho fatto queste esperienze in un universo parallelo dove nessuno poteva conoscermi: una capitale europea!

Ma la competitività c'è, e rimane. A volte vorrei avere due vite, ed esposi questa mia teoria ad una persona molto speciale che, guarda caso, era serotoninergica. Vorrei avere due vite: una la passerei in un monastero buddista, o su una montagna a fare l'eremita, o semplicemente passeggiando per le strade, per le città, amando tutti, aprendomi con fiducia verso gli altri, accontentandomi di poco, e sarei felice, felice davvero.
L'altra, la seconda vita, la consumerei nella battaglia e nella lotta, tentando di primeggiare, non fidandomi di nessuno, tendendo agguati e tessendo inganni, disprezzando il prossimo e rompendo ogni legame emotivo che possa separarmi dalla meta. E, infine, avrei la soddisfazione di essere "arrivato". Per cosa poi? Per morire, ovviamente, e capire che tutto si riduce a nulla, e che ho sprecato la vita rincorrendo cose e progetti che non mi davano la felicità. E, tuttavia, se io scegliessi l'altra strada, sarei comunque infelice, poichè insoddisfatto.
Forse è solo il mio carattere, forse è la dopamina, forse entrambe le cose. Forse, ma non importa. Perchè nella scalata, nel consumarsi per raggiungere i propri obiettivi, provo un'intima soddisfazione: vi è quello spingersi oltre il limite, il superarsi, il fare imprese impossibili.

Ricordo Alfieri che si incatenava alla sedia per scrivere le sue tragedie e raggiungere il successo. Lo ammiro. Se ne avessi bisogno farei lo stesso, e spesso ho pensato di ricorrere a questo stratagemma.

Ma ricordo anche Mattia Pascal, che fingendosi suicida inizia una nuova vita come Adriano Meis, e nei primi tempi è felice. Nessuno mi obbliga a spaccarmi la schiena e a soffrire così tanto per raggiungere certi risultati, eppure non riesco a non farlo, non riesco a non essere così estremo. Dovrei uccidere il mio immenso ego, solo così potrei smettere di essere ambizioso ed essere felice.

Vorrei avere due vite. Ma devo scegliere. Un po' come fece Achille, quando Teti gli disse che se fosse andato a Troia avrebbe avuto una vita gloriosa ma breve, mentre, se fosse vissuto lontano dalle armi, avrebbe avuto un'esistenza tranquilla e beata e lunga, ma sarebbe morto senza gloria e nessuno si sarebbe ricordato di lui. Lui scelse senza dubbio la prima: la gloria.
Vorrei avere due vite. Ma ne ho una. E ho scelto quella tormentata e infelice dell'ambizione. Tuttavia, la mia scelta, non è sicura e certa come quella di Achille, che non esitò un secondo.

Io esito tuttora. Penso spesso al poema di Gilgamesh, colui che voleva trovare l'immortalità, in particolare a quella parte del testo in cui qualcuno, forse Einkidu, dice a Gilgamesh che la vita è mangiare, dormire e far gioire la sposa sul proprio ventre (vi avrei inserito il testo, che è molto molto bello, ma non me lo ricordo, nè riesco a trovarlo!)
Insomma, è un invito ai piaceri della vita, quelli più semplici e immediati, senza consumarsi nelle ambizioni o in tutto ciò che ci allontana dalla felicità.

Ho scelto, con esitazione, la vita gloriosa ma dolorosa, non so se questa scelta sia stata dettata dalla tourette o dalla mia personalità o da entrambe le cose. So solo una cosa con certezza: se non avessi i tic, le ecoprassie e i doc questa strada non sarebbe poi così dolorosa, anzi, sarei ben felice di percorrerla. E, nel spingermi oltre il limite, nella speranza di raggiungere l'obiettivo, sono sicuro che mi sentirei in pace, o almeno felice. O forse è tutta un'illusione: non si è mai felici.

O forse, pensando che "la felicità è una scelta" (Seeking), siamo noi che scegliamo sempre l'infelicità. A me, in questo preciso istante, mi pare di aver fatto la scelta sbagliata, quella che porta infelicità. Ma, allo stesso tempo, so di non poter mollare, perchè non sopporterei che qualcun altro (uno di quelli che mi stanno sulle palle) raggiunga quella meta solo perchè io ho mollato.

Maledizione. Ricordo Dante che parla dell'aiulo che ci fa tanto feroci (Paradiso XXII), quando vede il mondo dall'alto e capisce quanto siano ridicole tutte le liti e i problemi che ci affliggono. Ecco, la mia razionalità mi mostra il mondo come un'aiuola, e, in questa prospettiva, dovrei scegliere una vita semplice e felice; ma poi, la mia emotività mi fa sentire che in quell'aiuola io ci sono dentro e mi viene voglia di lottare...e di complicarmi l'esistenza, soggiogato dall'ambizione.