Nei momenti di crisi di mio figlio
tante volte mi sono chiesta cosa lui vedesse in me in quei frangenti.
Perché spesso preferirei che non sapesse leggere il mio smarrimento, la mia inadeguatezza, la mia voglia di scappare, l’irresistibile istinto di strappare, separare per un attimo la mia vita dalla sua.
Tante volte ho chiuso gli occhi davanti alle sue grida per nascondere la mia paura e la mia stanchezza.
Daniele da piccolo (scuola materna) era un bambino molto, molto difficile da gestire. Credo che in assoluto quello sia stato uno dei periodi più difficili e faticosi della mia vita.
C’era una cosa che Daniele amava fare: tornare a casa a piedi dalla scuola materna. Si faceva prendere per mano, camminava vicino a me( tutte cose apparentemente banali, ma per lui praticamente impossibili in contesti diversi ). E io avrei voluto che tutti vedessero quanto era bravo, e bello, mentre camminavamo verso casa. Avrei voluto che lo vedessero certi vicini, che si lamentavano delle sue grida e della sua agitazione, o certe mamme di alcuni suoi compagni, sempre là a bisbigliare.
E così con il passare del tempo aspettavo con incredibile ansia quel momento della giornata.Pensavo sin dal mattino a quei minuti meravigliosi in cui sarei andata a prendere Daniele all’asilo, e li ripercorrevo infinite volte nella mia mente. Erano diventati gli unici minuti belli della mia giornata.
Poi ho iniziato a pensare che essere “felice”vicino a mio figlio solo 10 minuti al giorno non mi bastava…
E’ vero, appartengo ad una generazione a cui è stato inculcato il manzoniano concetto che il dolore è il sale della vita. Ma non ci ho mai creduto e in quegli anni decisi che avrei lottato con tutte le forze contro quel dolore che mi stava stritolando. Nei momenti di gravi crisi del bambino mi concentravo sulle sensazioni che provavo durante il magico tragitto di ritorno dall’asilo, e sull’immagine del suo sguardo.Non dico che è stato facile, ma è come se avessi trovato in questo modo “viscerale” , primitivo ed anche egoistico, i miei primi, personali “strumenti” per rispondere alle difficoltà che la condizione di Daniele mi poneva di fronte.
Il nostro cammino è sempre in salita, ma abbiamo fatto molta strada.
Daniele fino a pochi anni fa (ora ha dieci anni) praticamente non parlava. E’ per questo che ho imparato ad osservarlo molto. Soprattutto gli occhi. Questi occhi belli che dicono, e soprattutto chiedono. Il fatto è che troppe volte non so rispondere…Conosco a memoria il modo in cui socchiude le palpebre, deluso, quando non capisco cosa vuole, cosa c’è. Ed è per me una specie di frustata il suo gesto di asciugare da solo le lacrime, rassegnato, perché non ho capito cosa voleva dirmi.
Quando riesco ad intuire come aiutarlo, comprenderlo, allora lui mi chiede”asciuga” ed io posso avvicinarmi e asciugargli le lacrime. Questo è il segnale di “crisi finita”, di ripresa dei contatti. E’ lui che finalmente cerca il mio sguardo, e per me è una colata di gioia.
Che dire della delusione di fronte a speranze/obiettivi falliti?Ho provato anche quella, profondamente. E’ stato cercando di osservare il bambino dall’esterno, in modo quasi “scientifico” che sono riuscita a far virare queste sensazioni verso un più generale atteggiamento di “curiosità”. Mi piace guardarlo e “sentirlo” per quello che è, capire quel tanto che basta per fare un altro passo insieme.
Ho letto questa serie di post con molta emozione.Ascoltare le vostre esperienze mi aiuta a capire, forse, un po’ di quello che anche mio figlio possa sentire.
So che molte cose lui non potrà/saprà mai dirmele.
Ma aspetto sempre il suo sguardo, come un’innamorata, per intuire qualcosa in più.
Scadidabè